Essere in vita o vivere pienamente?Malati terminali
Una riflessione sulla sentenza della Corte Costituzionale italiana sul tema delicato e controverso del fine vita
La Corte Costituzionale italiana ritiene non punibile “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”
Vorrei partire- per la riflessione che intendo condividere con voi – proprio dal testo della sentenza che in Italia, in questi giorni, sta agitando le riflessioni e generando schieramenti.
In particolare alcune frasi:
- Autonomamente e liberamente formatosi
- Tenuto in vita
- Fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili
- Pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Sentenza emessa da una istituzione laica in una Repubblica democratica che – per costituzione – deve prendersi cura di tutti i suoi cittadini. TUTTI. Ho sottolineato prendersi cura perché ci tornerò più avanti.
Si parla quindi di fine vita. E’ forse banale quello che sto per dire – però non per tutti, vi assicuro-, lo so, tuttavia lo ribadisco. Mi viene un sussulto di rabbia, sì proprio rabbia, quando ci si permette di parlare di fine vita senza affrontare seriamente il tema madre di questa riflessione. Cos’ è vita? Cosa vuol dire vivere?
Sto leggendo un libro molto interessante di Francois Jullien – filosofo francese contemporaneo ateo- dal titolo “Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede”. Il testo a cui maggiormente si riferisce è il Vangelo di Giovanni che dei “quattro percorsi paralleli per tentare di dare credito all’inaudito … radicalizza, e questo in funzione di una sola domanda: che cosa vuol dire essere realmente vivo?” L’autore parte da un tradimento di traduzione che traduce nello stesso modo (vita) due termini che in greco hanno significati ben diversi: Psychè (essere in vita) e Zoè ( avere in sé la vita nella sua pienezza). “essere vivi significa in effetti due cose: può significare solamente essere in vita, cioè non essere morti e avere in sé la vita in abbondanza”.
Secondo elemento che vorrei condividere con voi: cosa crediamo veramente della morte? Già nel 2012 scrissi una lettera inviata a molte riviste cattoliche – l’ha pubblicata solo Settimana del 25 marzo 2012- sulla scia dei funerali di Lucio Dalla ma con riferimenti anche a Welby, al collega suicida di Verzè, e via discorrendo In parziale risposta all’interrogativo riportavo le definizioni basate anche solo su “senso comune” di fede. “la morte è un passaggio, la vita non finisce qui, anzi, la vita sulla terra è un assaggio di quella ben più lunga e più ricca; siamo della stessa natura divina e dopo saremo trasfigurati di luce come Gesù sul Tabor, ecc..(…) Ma quindi la vita non è un unicum, un unico flusso che si snoda nell’eternità e che ha vari stati? Allora non dipenderà tutto non da quando si muore ma da come si è vissuto il tempo, poco o tanto che sia, che ci è stato donato?”
Sapete quali sono le uniche risposte alla sentenza della Corte Costituzionale riportate dai media del nostro Gotha ecclesiale? “Si è perso il lume della ragione”. Bassetti ( presidente della CEI) si era addirittura permesso ingerenza nei confronti della Consulta chiedendo uno slittamento della sentenza . L’avesse fatto nei panni di un semplice cittadino …. Ma la sua voce tuonava da un pulpito ben più istituzionale.
E ora stanno partendo le crociate dei “buoni e retti credenti” che pretendono obiezione di coscienza, che richiamano i dottori al loro obbligo di salvare vite, che lanciano anatemi e scomuniche. Dall’alto del loro potere e diritto di giudicare.
Ma torniamo ai termini della sentenza.
- Autonomamente e liberamente formatosi
- Tenuto in vita
- Fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili
- Pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Cos’è vita per chi si trova in quelle situazioni descritte? Perché di fronte a ‘sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili’ non si dovrebbero preferire le braccia misericordiose del Padre? Non dico che debba essere giusto o per tutti così, me ne guardo bene, ma perché non pensare che possa essere possibile? Perché di fronte a volontà ‘autonomamente e liberamente formatosi ‘ e alla piena capacità di ‘prendere decisioni libere e consapevoli’ noi possiamo ergerci giudici e contrastare la volontà e il desiderio di persone libere e consapevoli?
La risposta spesso è : perché se cominciamo così chissà dove si arriva, perché poi viene utilizzato per altri fini, ecc.. Quindi siamo alle solite: l’uso corrotto che fa l’uomo di certe situazioni vince sulla giustizia, sulla misericordia, sulla equità, sulla uguaglianza …
- Tenuto in vita.
Per me, in questa materia, questa è forse la frase che più mi sgomenta e mi addolora da credente. Perché a tutti i costi dobbiamo tenere legata alla dimensione terrena un’anima che potrebbe continuare a vivere nella sua altra dimensione che già qui e ora dovrebbe far parte di noi? Perché mascherare da ‘la vita è sacra’ un accanimento che risolve solo le necessità e la pace della coscienza di chi rimane? Perché non avere fede e credere veramente che Dio ama e provvede, che non ci sarà più lacrime e stridor di denti, che cambierà il nostro lutto in gioia, che siamo uniti nella comunione dei Santi?
Dov’è la misericordia? Dov’è quel prendersi cura di cui parlavamo all’inizio? Le persone che soffrono quelle pene come devono essere considerate? Le persone che stanno loro vicino e che veramente le amano nel senso di vederle serene, felici, ascoltate nei loro bisogni e desideri, come devono essere considerate? Come si amano queste persone? Come le ama Gesù Cristo.
*l’autrice presta il suo servizio come volontaria presso i malati terminali