Occuparsi: prendere dimora in sé
è un dovere anzitutto verso se stessi, quello di prendersi in carico, quello di occuparsi di se stessi.
Nel De vera religione, Agostino scrive una frase molto significativa: «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas ⁓ Non voler andare fuori, ritorna in te stesso, nell’uomo interiore abita la verità».
Questa massima non è nuova in Agostino, ma trova dei lunghi precedenti nella storia della filosofia; le scuole filosofiche, antiche come di ogni epoca, possono essere infatti pensate come luoghi di esercizio, quello che in termini cristiani verrà definito “esercizio spirituale”[1]. L’amicizia della sapienza, questo il senso di filosofia, altro non è che l’acquisire un vero gusto della vita, un sapore della vita. Il sapiente non è colui che conosce ogni cosa o che divora libri, ma colui che sa cogliere in profondità la propria esistenza. Si pensi allo stoicismo e al valore del tirocinio della morte: anticipare nel quotidiano il momento finale della propria vita, era finalizzato ad una sempre maggiore acquisizione della propria libertà.
Spesso, però, nella nostra condizione di fragilità, siamo più inclini a realizzare la denuncia di Pascal: «Divertissement. – La mort est plus aisée à supporter sans y penser, que le pensée de la mort sans péril. ⁓ Diverimento. – è più facile sopportare la morte non pensandoci, che pensare alla morte senza che si sia in pericolo». Il divertimento, inteso come distrazione, pare essere la soluzione che l’uomo comune segue di fronte al dramma dell’esistenza. Questa soluzione, però, non è altro che illusione: il dramma che è la vita dell’uomo non lo si affronta scappando, ma restando e abitandolo. L’uomo che va alla ricerca di divertimento è l’uomo che “esce fuori di sé”, una perifrasi che spesso si utilizza per indicare lo stato di pazzia: è fuori di sé!, si dice di chi è in preda ad un sentimento o un’emozione che gli annebbia la ragione.
L’ammonimento di Agostino, invece, convoca il singolo uomo ad un dovere: è un dovere anzitutto verso se stessi, quello di prendersi in carico, quello di occuparsi di se stessi. Occupare, un verbo il cui primo significato riportato dall’enciclopedia online Treccani è “prendere possesso di un luogo”; occupare, ma al riflessivo: prendere possesso di se stessi. Non è semplice, altrimenti non sarebbe posto come “dovere”, ma sarebbe piuttosto qualcosa di spontaneo. Occuparsi di sé richiede, al contempo, lo sforzo di distrarsi, o meglio di dis-astrarsi, ossia di non essere più l’unica stella di se stessi. Per ritornare in sé e incontrare l’uomo interiore, infatti, è necessario liberarsi dai condizionamenti della propria situazione contingente, i quali potrebbero causare una distorsione della vista. Abitare presso di sé può essere fattibile solamente previo un cammino di libertà: emanciparsi da tutte quelle catene che tengono imprigionato l’io, da quelle dipendenze che ne limitano la capacità riflessiva, da quel perverso modo di riflettere da sé e in sé (nulla come la mente ci mente, ci inganna). Liberarsi dal proprio modo di vedere le cose, che è sempre parziale e limitato, per aprirsi al confronto con l’altro e con gli altri, i quali possono restituirci i gradi che mancano al nostro sguardo perché sia a 360°.
Nel mondo monastico, l’habitare secum ⁓ abitare con sé è il criterio di verifica della vocazione: non è una chiusura autoreferenziale, ma la capacità di permanere presso se stessi, di accogliere se stessi e di non fuggire dalla propria presenza. La propria interiorità è il luogo in cui ritrovare le fondamenta della propria vita, della propria esistenza che, secondo la posizione sartriana, precede l’essenza. È il porto sicuro cui approdare quando i rivolgimenti esterni sembrano sconvolgere il tutto della propria vita e da qui ritrovare le colonne portanti del proprio edificio. Questo, però, non avviene in un movimento di autocontemplazione narcisistica, ma, al contrario, proprio liberandosi dai condizionamenti che vengono dal proprio coinvolgimento nei rivolgimenti esterni.
Prima di Agostino, Seneca così scriveva a Lucilio: «Recede in te ipsum quantum potes ⁓ ritorna in te stesso quanto puoi». È un invito che i Sapienti da sempre rivolgono a coloro che si affidano alla loro guida – ed ecco l’altro elemento necessario, l’af-fidarsi ad un altro –: ritorna in te stesso. Solo un uomo ben fondato in se stesso, sarà capace di protendersi verso gli altri; senza un fondamento solido, invece, rischierebbe di rovinare sugli altri.
Ma Agostino aggiunge qualcosa: qui, nel tuo intimo, non sei solo, ma abita anche la Verità. Allora è in questo prendere dimora presso di sé che si può venire a contatto con la Verità che, lungi dall’essere un fatto, è una persona. Sì, quella persona di cui lo stesso Ipponate dice: «Sei più intimo a me di me stesso».
[1] Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino 20052. La stessa chiave di lettura può essere riconosciuta nei testi delle lezioni di Michel Foucault.