Buon sangue non menteFerite o feritoie. La tragicità della scelta.
Ferite che restano e non si rimarginano. Ferite, segni di morte. Feritoie, segni di salvezza.
Sul romano colle Aventino, accanto al meraviglioso Giardino degli Aranci, si trova la villa del Priorato dei Cavalieri di Malta divenuta nota per un piccolo foro da cui è possibile vedere il Cupolone: non si tratta altro che di un semplice buco della serratura, oltre il quale però la Basilica di san Pietro si presenta in una prospettiva assai affascinante.
Un cancello, segno di un limite da non superare, una barriera di leopardiana memoria che impedisce di scorgere ciò che sta oltre, immagine della finitudine dell’uomo che non può possedere o conoscere ogni cosa, ma ad un dato punto è costretto a fermarsi. Nel tempo attuale ci è difficile accettare questo versante di impotenza della vita: siamo spesso mossi da un delirio di onnipotenza e aspiriamo ad avere il controllo su tutta la realtà. Già Pico della Mirandola riteneva che l’uomo fosse stato creato “ut simus quod esse volumus – affinché siamo ciò che vogliamo essere” e d’altra parte, in questi decenni, la scienza ha avvallato questo modo di pensare, illudendoci che ogni nostro desiderio fosse realizzabile. Ma mai come in questi mesi l’uomo contemporaneo si è trovato sconfitto, ancora una volta, nella sua pretesa adamitica: un essere incontrollabile, sorto o meno dall’ingegno umano non lo si saprà mai per certo, ha scosso l’esistenza in tutte le sue sfaccettature e in tutta la sua universalità.
L’uomo, che vorrebbe poter essere ciò che vuole essere, si trova inevitabilmente costretto entro certi limiti, anche solo spazio-temporali, che imprimono una ferita al suo nobile ego e alle sue aspirazioni più alte. Sin dalla nascita, la vita umana si prospetta ferita, frutto di un taglio – quello del cordone ombelicale -, germinata dal dolore del parto. Nel tempo a questa ferita iniziale si uniranno numerose altre ferite, perché in questo consiste l’esistenza umana, ossia nella tragicità della scelta.
In Stadi sul cammino della vita, Kierkegaard propone due tipologie di vita opposte: estetica, segnata dall’indifferenza e dalla prigionia entro piaceri che richiedono di essere disperatamente reiterati; etica, caratterizzata dalla scelta, unica via per ritrovare l’unità del proprio sé. È dunque la scelta che segna il passaggio da uno stadio di vita estetico, spersonalizzante, alienante e che porta alla disperazione, a quello etico in cui l’uomo ritrova armonia. Essa però è una ferita, è la decisione (de-cidere, un taglio) per una possibilità e il rifiuto delle altre novantanove; per questo oggi possiamo assistere ad un crescente numero di “estetici”, senza limiti di età (quanti sessantenni che ancora si ritengono adolescenti…). È la paura della scelta, è la paura del taglio: sin dalla propria nascita l’uomo corre, senza tregua, per sfuggire alle proprie ferite, per non dover fare i conti con la propria finitudine e con quella ferita che di nuovo si proporrà: la morte. Sentire il peso del cieco destino mortale mette in atto nell’uomo una serie di tentativi di fuga, di procrastinare l’incontro con la propria finitudine; è quanto Schopenhauer propone con la sua noluntas, ossia la non-volontà-di-vivere.
Torniamo sull’Aventino e al famoso “Buco della serratura”. Che altro è questa toppa, se non una ferita? Eppure è proprio essa che permette non solo di scorgere il lontano Cupolone, ma anche di poter aprire il cancello. Così avviene anche nella vita: son proprio le ferite, in modo particolare quelle più dolorose, le scelte e le decisioni che siamo costretti a prendere che ci permettono di comprendere la bellezza della nostra stessa esistenza. È scegliendo che si diventa grandi e si matura: la scelta dell’indirizzo scolastico, quella lavorativa o della persona che amiamo. Ogni scelta implica che altre possibilità siano scartate, ma resta l’unica via per realizzare qualcosa nella nostra vita. E allora quelle ferite diventano feritoie, da cui scorgere l’unica possibilità di salvezza, l’unica via perché la nostra vita non sia un accumulo di momenti insensati, ma sia chairos, esistenza orientata ad un senso.
C’è una ferita che più di altre è tipologica: si tratta del fianco aperto di Cristo. Questa ferita è segno della sua morte in croce, ma è anche la possibilità per Tommaso di riconoscere nel Risorto il Maestro. Una vita che supera la morte, un cuore che ancora vive dietro la piaga della lancia; una ferita che diviene segno di speranza per tutto il cosmo: “nel sangue di Cristo la nostra libertà” recita il breviario romano, perché è in quelle cinque piaghe sul suo Corpo, che le nostre acquistano senso e, da immagini di morte, divengono impronte di vita.
Ferite che restano e non si rimarginano. Ferite, segni di morte. Feritoie, segni di salvezza. Noluntas o scelta, la scelta rimane.