Rita da Cascia: la forza della pazienza

AUGUSTO FUMAGALLI

Santa Rita da Cascia.jpgHomo homini lupus, l’uomo è un lupo per gli uomini, dice Thomas Hobbes nella sua opera De cive e così descrive uno stato di natura in cui gli uomini si combattono tra loro e non possono convivere pacificamente senza l’intervento dello stato a limitare la forza dell’egoismo.

ζῷον πολιτικόν φύσει, animale politico per natura, così invece Aristotele descrive l’uomo nella Politica, un uomo che per sua natura è portato a vivere comunitariamente.

Due concezioni diametralmente opposte tra loro, che manifestano una concezione dell’uomo da un lato impossibilitato alla concordia, dall’altro portato per natura a vivere insieme agli altri. Talvolta siamo portati a ritenere vera l’una, altre volte preferiamo la posizione opposta, forse dipende dal nostro sentimento del momento, dagli eventi che hanno segnato la nostra vita; ad oggi mi è parso di osservare che, tendenzialmente, la maggioranza delle persone è orientata alla visione hobbesiana.

Ci fu una donna, nell’Italia del Quattrocento, che fu invece infaticabile testimone della tesi aristotelica che, se liberato l’uomo dal rancore e dalla paura egoistica, egli è naturalmente orientato alla vita di comunione. Ella non trasse questa posizione da grandi studi, ma da una conoscenza profonda di quel testo che Levinas definisce, Libro dei Libri, perché in esso è tematizzato per la prima volta il compito di responsabilità per l’altro che determina l’essenza del corretto agire umano, ossia la Bibbia. Una santa innamorata dell’umanità di Cristo, che seppe orientare alla croce ogni pensiero del proprio cuore, tant’è che la sua fronte fu trafitta da una spina e da questa croce trasse il modello per la propria vita. Margherita Lotti, meglio conosciuta come santa Rita, patrona dei casi impossibili. Una vita dura e difficile la sua, fatta di rinunce e dolore, ma il tutto vissuto con amore.

Ella fin da giovane avrebbe voluto entrare nel chiostro, ma i suoi genitori preferirono che si sposasse. All’età di diciotto anni sposò Paolo Mancini, un giovane di Cascia con un carattere impetuoso e a tratti violenti. Il primo frutto della santità di questa donna fu proprio la conversione del marito, che scelse di deporre le armi grazie alla perseveranza e pazienza di Rita che, ad ogni violenza e al carattere rude di lui, rispondeva con dolcezza e semplicità. Anche i due figli assimilarono i tratti paterni e della società di allora, che proponeva anche il valore della vendetta. Fu proprio questa la causa della morte di Paolo, che venne ucciso in un’imboscata perpetrata, probabilmente, da chi non volle perdonargli le angherie precedenti. Una tradizione attribuisce a Rita il tentativo di nascondere ai figli adolescenti la morte per assassinio del padre, togliendo al cadavere e bruciando la camicia insanguinata. Essi però seppero, dalla casata paterna, la verità sulla morte del loro genitore e si decisero per la vendetta. Rita per sottrarli a questa sorte, pregò Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo: si tratta di una tradizione, ma è certo che i figli morirono l’anno seguente per una malattia, aggiungendo dolore al dolore di Rita.

Ella bussò allora per ben tre volte alla porta del monastero e solo dopo numerose prove fu accolta; in particolare solo dopo la pacificazione dei Mancini, le suore agostiniane aprirono le loro porte alla santa. Il ruolo della pace è fondamentale in Rita: ella, figlia del paciere, si adoperò perché ci fosse pace nella comunità di Cascia, ma ancor più negli animi delle persone. Un evento miracoloso suggella il suo ingresso in monastero: una mattina venne trovata in coro, entrata a porte chiuse e con la guida dei suoi santi patroni Agostino, Nicola da Tolentino e Giovanni Battista. Il suo noviziato fu poi caratterizzato da un’ennesima prova di pazienza ed umiltà: costretta ad innaffiare un arido legno, la sua perseveranza valse la fioritura della vite.

Rita, esempio di una filosofia che nasce dal vangelo e dalla vita quotidiana, stella della pazienza e dell’amore, queste furono le due categorie che guidarono il suo agire. Cartesio esalta la pazienza come virtù sia teoretica che pratica; Rita è la concretizzazione di questa virtù e della grande forza che essa possiede. La pazienza, nutrita dall’amore, è la possibilità di vincere il nostro e l’altrui egoismo, per liberare quella che è la vera natura dell’uomo dalle catene di paura che la tengono prigioniera. Questo ella lo apprese dalla scuola del Vangelo e fu per imitazione della croce che Rita poté attuare questa virtù: fu il vangelo, estremo capitolo della pazienza e dell’amore di Dio per l’uomo, che guidò i passi di Margherita Lotti. L’incarnazione di Dio è il gesto più alto dell’amore, la sua passione e morte sono l’emblema della sua pazienza: grazie a questa umiliazione d’amore e di pazienza, Dio poté restituire all’uomo l’originaria somiglianza perduta, mostrandogli come la sua esistenza non sia solipsistica, ma fondata da un Altro e orientata agli altri.

Rita, patrona dei casi impossibili, possedette la fermezza della pazienza e la fiducia dell’amore, guardò agli uomini con occhi di speranza e così poté volgere, non senza soffrire, ogni cosa al bene. In fondo anche questo è “vivere con filosofia”, secondo quel Logos che, incarnandosi, ha abitato la storia.