Tra pacifisti ed interventistiLa guerra in Ucraina

Una lettura filosofica dell'opposizione circa le modalità di intervento nella questione ucraina a partire da una fenomenologia dello scenario.


AUGUSTO FUMAGALLI

Il bene che ci impedisce di godere di un bene maggiore è, in realtà, un male; quindi noi, sotto la guida della ragione, appetiremo ossia seguiremo soltanto un bene maggiore e un male minore.
Spinoza, Etica IV, proposizione LXV, dimostrazione.

Penso che sia “pacifico” per tutti che la guerra è qualcosa di male: nessuno la vorrebbe, almeno tra i sani di mente, nessuno la vorrebbe vivere in prima persona, nessuno la vorrebbe dichiarare. Tant’è che nemmeno Putin, con le ovvie ragioni interessate, ci sta a chiamare per nome la sua azione militare nel territorio ucraino. Possiamo su questa base affermare che l’uomo abbia un ripudio naturale alla guerra e al male? Bah, io penso l’esatto opposto: l’uomo ha un ripudio naturale a chiamare per nome le cose, soprattutto il male che compie egli stesso in prima persona. Rifiuto a dare un nome che è in netto contrasto con quanto raccontato in Gen 2,19; rifiuto, però, che nasce dalla consapevolezza della malvagità delle proprie azioni alle quali non si guarda se non in maniera edulcorata, confermando la sentenza aristotelica dell’uomo come animale politico che, aggiungiamo noi, prova una resistenza di fronte al male che compie e che tuttavia non riesce a smettere di compiere.

Quoad nos, poste queste debite premesse, ci troviamo di fronte ad una guerra terribile su tutti i fronti: umanitario, politico, economico. Come tipico per le società di massa, anche oggi si è realizzata una polarizzazione tra le posizioni: interventisti e pacifisti. Svelo subito la mia posizione, che è il tentativo di conciliare le due, avvicinandosi però– lo confesso – maggiormente alla prima. Quello che in queste poche righe mi propongo di fare non è la ricostruzione storica degli eventi bellici, o una storia dei rapporti Russia-Ucraina da sempre piuttosto difficili (si pensi anche solo alla grande carestia del 1932-1933); piuttosto, aprire una riflessione su una questione fondamentale: il male.

Recentemente, un mio famoso collega ha pubblicato sulla propria bacheca Facebook l’articolo 11 della Costituzione Italiana in cui vi è contenuto il ripudio alla guerra in tutte le sue forme e anche «come mezzo di risoluzione nelle controversie internazionali». Nulla da eccepire, fin qui e tutti, penso, riteniamo sia meglio l’azione diplomatica, la trattativa e i chiarimenti a tavolino. Tuttavia, come spesso si dice, il “meglio è nemico del bene”. In che senso?

Putin si è detto disponibile a trattare, ponendo però chiare condizioni, ossia che vengano accettate tutte le sue richieste, così ha detto al Cancelliere tedesco. Kiev, manco a dirlo, rifiuta (e giustamente). Infatti, ci chiediamo, questo è trattare? A prima vista, almeno, parrebbe di no, piuttosto è chiedere una resa incondizionata sotto mentite spoglie; le trattative dovrebbero essere un dialogo tra le parti nemiche che portino ad incontrarsi su un terreno di mezzo. Siamo ormai giunti al terzo round concluso di incontri diplomatici e si ha solo un piccolo progresso – dice un negoziatore ucraino – circa i corridori umanitari. Almeno apparentemente, la via diplomatica sembra non sortire alcun effetto. E intanto?

Intanto assistiamo a immagini di famiglie dilaniate, non solo per la separazione di chi scappa e di chi è costretto a restare al fronte, ma dilaniate nel senso più concreto e carnale possibile: vediamo corpi lacerati dalle armi, cadaveri sulle strade, una famiglia a Irpin’ massacrate da un bombardamento russo.

Il male, contrariamente a chi può pensare che esso sia solo metafisicamente un’assenza di bene, è ontologicamente qualcosa di concreto, di reale, qualcosa che tocca la carne nella sua vita. Così ne parla Anselmo d’Aosta: «Non abbiamo paura di quel male che è nulla, ma del male che è qualcosa di reale e che segue alla mancanza del bene. Molte sofferenze seguono infatti l’ingiustizia [da leggersi come “assenza di giustizia”, nda] e la cecità [“assenza di vista, nda], e quelle sofferenze sono male e sono qualcosa di reale». Il male non attende ad accadere, ma giunge e spazza via tutto ciò che può. Esso non attende i nostri bei pensieri, le nostre manifestazioni, cortei o parate (che, mi si permetta di dire, lasciano il tempo che trovano). Non aspetta nemmeno che citiamo la Costituzione, ma giunge e mitraglia gli uomini che, lontani dai nostri salotti, stanno sotto le bombe e si rifugiano tra le macerie. Che fare?

Molti si sono schierati contro l’invio di armi alla resistenza ucraina, e giustamente se teniamo presente che la guerra è un male e la pace un bene. Però, in questa visione, si rischia la miopia: non si capisce che consideriamo solo la nostra di situazione, benpensante e serena, ma non ci si accorge, infatti, che la guerra è di fatto già in atto, che la pace è di fatto già assente, che i civili sono di fatto già bombardati. Allora possiamo indignarci perché «anche l’ultimo articolo della Costituzione è stato calpestato» – come denunciava il mio già citato collega -, ma resta un sentimento nostro, di chi un tetto sulla casa lo ha ed è più o meno sicuro, di chi non ha il padre, il figlio, il fratello, il marito al fronte, di chi non ha perso i genitori o i figli.

Agostino, scrivendo al generale Bonifacio, così afferma: «La pace deve essere nella volontà e la guerra solo una necessità, affinché Dio ci liberi dalla necessità e ci conservi nella pace! Infatti non si cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per provocare la pace! Anche facendo la guerra sii dunque ispirato dalla pace in modo che, vincendo, tu possa condure al bene della pace coloro che tu sconfiggi. […] Sia pertanto la necessità e non la volontà il motivo per togliere di mezzo il nemico che combatte».

Quel bene maggiore che è la pace, la sopravvivenza del popolo ucraino, la non uccisione dei civili, ha imposto la necessità di armare coloro che si battono per la propria libertà e per la propria vita. Mediante tale invio si è, quindi, spinozianamente, ma anche agostinianamente, perseguito un bene maggiore commettendo un male minore.