Oltrepassare le delusioni e i tradimenti

Come affrontare le delusioni affettive e lavorative? Fortificando il proprio mondo interiore e la propria autostima.


AUGUSTO FUMAGALLI

Quando si subisce un tradimento affettivo, il pensiero più ricorrente è: «che cosa mi è mancato? Che cosa ha permesso che venisse scelta l’altra persona a me?». C’era una promessa, un patto, un’alleanza: perché è venuto meno? Il vulnus che lacera il vissuto di colui che si trova a dover vivere il ruolo dello scartato sta proprio in questa mancata-elezione, una mancata-scelta, un mancato-riconoscimento, una predilezione accordata all’altro, all’antagonista. Da questa ferita, quasi sempre, si origina un’infezione che consta di diversi sentimenti: quello di inadeguatezza («non sono all’altezza del prescelto»); quello di umiliazione («se dopo tanto tempo investito insieme, vengo così miseramente e velocemente scartato, vuol dire che non ne valgo la pena»); quello di sconfitta («nonostante ho combattuto per mantenere il legame, ho perso, perché chi amo ha scelto l’altro»).

Analogamente, anche nell’ambito lavorativo accade talvolta qualcosa di simile, pensiamo per esempio a quante volte accade che, nonostante i titoli che spesso sfoggiamo, vediamo che uno – generalmente definito immanicato – ci passa davanti senza grosse difficoltà.

Più generalmente, forse anche per colpa della società circostante, siamo quasi sempre sottoposti a questi estenuanti fatiche e sforzi per dimostrare il nostro valore, per dimostrare che “sì, mi merito questa cosa” o “sì, ne valgo la pena di essere scelto”. Da questa prospettiva, allora, possiamo osservare con sguardo retrospettivo le molte attività che facciamo, gli studi che compiamo, le mete che vogliamo raggiungere: quanto c’è di libertà in questo? Quanto, invece, viene dal nostro desiderio di essere riconosciuti nella nostra dignità, nel nostro valore? Spesso è proprio questa forma di schiavitù che, se da un lato ci permette positivamente di andare avanti migliorandoci, dall’altro ci mantiene in uno stato di soggezione, sub-iecti, ossia “posti sotto”, nei confronti degli altri. È un tema, questo, che sta fortemente a cuore della filosofia contemporanea (si pensi anche solo al Sartre de A porte chiuse con la sua affermazione: «L’enfer, c’est les autres»), ma sulla quale già hanno, in un qualche modo, parlato già gli antichi stoici.

Essere riconosciuti, apprezzati nel proprio valore, non quello raggiunto attraverso ciò che oggi definiamo “realizzazione personale”, ma quello intrinseco, embricato nel nostro statuto di esseri umani, di persone, di per-se-unum. Questo è il desiderio che ciascuno di noi porta dentro di sé ed ecco che l’inferno è quando l’altro, con il suo sguardo, annulla il mio essere persona e mi rende un oggetto, preferibile agli altri solo se capace di dimostrare il possesso di qualità superiori. La vita, allora, assume le fattezze di uno stadio e noi di atleti che debbono continuamente raggiungere un livello maggiore di attrazione, in qualsiasi campo dell’esistenza. La domanda che sorge è: ma ne vale la pena? È vivere l’essere continuamente sottoposti a questo streben? Dove finiamo noi? La nostra umanità, il nostro essere per-se-unici, persone?

Gli stoici hanno qualcosa da dire, seppure chi scrive non condivida appieno tutte le loro tesi. Essi parlano, infatti, di ataraxia, quella che potremmo un po’ maldestramente tradurre con imperturbabilità. Essa non è solo la liberazione del sé dagli influssi delle passiones, ma riguarda anche il raggiungimento di quella convinzione di fondo che il mio valore di persona non dipende e non può dipendere dal mero riconoscimento altrui ed è, invece, embricato nella mia stessa esistenza. Certamente, è imprescindibile, per quell’animale sociale che è l’uomo, il bisogno di ottenere il riconoscimento altrui, l’attestazione che «è bene e bello che tu esista», ma non può diventare la conditio sine qua non per vivere. Anche nella traversie della vita, nelle delusioni lavorative, nei tradimenti subiti, deve mantenersi la capacità di guardare oggettivamente a sé, riconoscendo il proprio valore intrinseco. Per fare questo, però, è necessario mettere in atto l’antico monito che era inciso sul tempio di Apollo a Delfi: gnothi seauton, conosci te stesso. Conoscersi in verità significa ri-conoscersi – ecco il primo vero riconoscimento di cui necessita ogni uomo – in quanto degno di vivere, in quanto avente un proprio valore. Questo non eviterà quelle ferite che, come l’esempio dal quale siamo partiti, ci verranno inflitte nei giorni della nostra quotidianità, ma sarà argine alla disperazione, all’avanzare di quell’enfer che lo sguardo oggettivamente dell’altro talvolta origina. Questo il primo riconoscimento, questa la predilezione necessaria, la stessa che suggerisce il vangelo: ama il prossimo tuo come te stesso.