Tra progressisti e dogmatici. La via media della ragione

Riflessioni sul sinodo riunito a Roma tra fede, veritä e diversi modelli culturali e ideologici


AUGUSTO FUMAGALLI

La riflessione che segue trova spunto dalla lettura di contributi di diversa natura e orientamento. Il primo è un opuscolo che descriveva, almeno a suo dire, i rischi e i pericoli intrinseci al Sinodo dei Vescovi; il secondo, invece, sono i roboanti titoli con cui i giornali restituivano al pubblico il Responsum del Dicastero per la Dottrina della Fede, quasi fosse avvenuta una rivoluzione, mentre si sono solo ribadite cose già note… Nihil novum sub sole. Alla luce di questo, mi son nati alcuni pensieri. Nel primo caso, il messaggio di fondo poteva essere riassunto con le seguenti semplici parole: questo Sinodo mette a rischio la Verità. Nel secondo caso, invece, il messaggio si riassumeva così: finalmente qualche passo incontro al mondo. Entrambe le posizioni, però, mi paiono riduttive e molto parziali.

Nel mentre riflettevo a queste cose, mi son ricordato di un passo della Dialectica di Pietro Abelardo (†1142):

«Se si ritiene che l’arte dialettica combatta contro la Fede, senza dubbia non la si può ritenere scienza. Infatti, la scienza è la comprensione della verità delle cose, la cui specie è la sapienza, nella quale consiste la fede. […] Ma la verità non è contraria alla verità»[1].

Ciò che i  detrattori del Palatino, com’egli stesso afferma, gli contestavano era l’applicazione dell’autonomia ragione al campo del sapere teologico. Il timore che essi nutrivano era che, attraverso questo metodo “innovativo” di fare teologia, venissero messi in discussione i cardini stessi della fede, come a dire che, se noi seguiamo la nostra intelligenza e la nostra ragione, saremo necessitati a ripudiare la fede. Dal canto suo, invece, Abelardo sostiene l’esatto opposto: proprio in virtù dell’unicità della verità, non è possibile che i due percorsi, fede e ragione, conducano a due verità differenti. Ciò che il Maestro Dialettico suggerisce è che, attraverso una corretta applicazione della nostra ragione, potremo giungere a quella fede a cui, altrimenti, crederemmo solo per obbedienza all’autorità.

Questo insegnamento è quanto mai prezioso oggi, quando sembra che il divario tra fede e razionalità, o per meglio dire tra fede e modelli culturali attuali, sia quanto mai cresciuto. L’esempio più facile da proporre è l’approccio ai temi della morale: da un lato spinte, oltre ogni misura e talvolta prive di criteri seri di ragionamento, per raggiungere obiettivi predeterminati; dall’altro un arroccamento, che si appella al valore della Tradizione, atto ad impedire qualsiasi messa in discussione del “è sempre stato insegnato così”.

Di mezzo cosa sta? Mi verrebbe da rispondere: il sapere della vita. Nella nostra esistenza, generalmente, abbiamo bisogno di tempo e seria riflessione prima di prendere una decisione che possa stravolgere la nostra quotidianità, a maggior ragione se sappiamo che dovremo render conto della nostra scelta. Al contempo, però, se vi è uno scollamento tra ciò che viviamo e ciò che riteniamo vero, la nostra esistenza diventa luogo di alienazione di noi da noi stessi. L’incarnazione, invece, ci insegna che la nostra esistenza è ciò che dobbiamo abitare e dobbiamo abitarla in profondità; che è nella quotidianità della nostra esistenza che può avvenire l’incontro con Cristo risorto. Non basta obbedire all’autorità, per vivere una vera relazione con Cristo, ma Lui lo possiamo incontrare solo quando tutto il nostro essere raggiunge l’unità e ciò può avvenire se e solo se all’autorità anteponiamo la nostra coscienza, «sacrario dell’uomo, dove lui si trova solo con Dio»[2]. Il problema è liberare la coscienza da tutto ciò che in essa si è incrostato, ossia da quelle leggi, costumi e imperativi che le sono giunte dall’esterno. Spesso, infatti, ci troviamo ad obbedire, inconsciamente, alla paura: “mi hanno insegnato così”, “la Chiesa insegna così”… ed è qui che si radica lo scollamento tra esistenza e coscienza.

Liberare la coscienza può avvenire solo applicando la nostra ragione, in nostro intelletto – che è dono dello Spirito – non solo alla nostra esistenza, bensì anche a quanto ci viene insegnato e comandato. Un esempio provocatorio: se io non uccido solo perché obbedisco alla legge che me lo proibisce, non compio alcuna azione meritevole, perché la mia intenzione non era il rispetto dell’altro, ma quello di una norma. Come insegna lo stesso Abelardo nella propria Etica, è l’intenzione che determina il valore di un’azione: «Buoni o malvagi possono compiere le stesse azioni, secondo o contro la Legge, ma l’unica cosa che li distingue è l’intenzione. […] Nessuno infatti sopporta e fa tante cose per amore di Dio quante ne fa un ipocrita»[3]. La coscienza che obbedisce solo per autorità o per la comodità di non dover applicare la ragione è imprigionata nella propria paura o nella propria accidia.

Contro il dogmatismo degli uni e l’incontenibile progressismo degli altri, sta la capacità di proporre una seria e accurata riflessione, che interroghi anzitutto la vita del singolo e da qui costruisca un nuovo sapere, il quale non potrà certo essere contrario alla Verità, perché Essa è una. Dunque, non si tratta di cambiare la fede, ma solo di ricomprenderla all’interno di un mutato contesto: non è un distruggere la Tradizione, piuttosto è un renderla più viva. Il Catechismo parla una lingua e la lingua è mutevole; Cristo ha abitato la storia e non ha reso un istante della storia il paradigma a cui si doveva adeguare ogni altra età. L’applicazione alla nostra esistenza, a ciò che viviamo e ai sentimenti che ci abitano di quel dono dello Spirito che è l’intelletto, diviene allora l’unica strada per una comprensione nuova di quanto l’autorità ecclesiastica insegna. Ecclesia semper reformanda: ma questa riforma non può avvenire se non dall’interrogazione che ciascuno deve svolgere a sé e alla propria ragione. Solo il coraggio dell’intelligenza e della parresia sarà l’argine all’ipocrisia di un’obbedienza genuflessa a comandi che, come i farisei del Vangelo, vengono imposti da coloro che per primi non sanno portarli.


[1] Petrus Abaelardus, Dialectica. De divisione hypotheticarum earumque proprietatibus. Prologus, disponibile all’indirizzo internet https://mlat.uzh.ch/browser?path=2239/11932/11884 (consultato in data 12 novembre 2023). Traduzione nostra.

[2] Catechismo della Chiesa Cattolica, parte III, sezione I, capitolo I, articolo 6.

[3] Abelardo, Etica, a cura di M.Fumagalli Beonio Brocchieri, Milano 2014, pp. 44 – 45.