Assumersi le proprie responsabilità
Commento a Ez 18,25-28 e Mt 21,28-32
Dal libro del profeta Ezechièle (Ez 18,25-28)
Così dice il Signore:
«Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?
Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.
E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».
Il profeta Ezechiele si rivolge alla popolazione israelitica che fu deportata a Babilonia nel 597 a.C. Nel capitolo 18, di cui abbiamo ascoltato una piccola parte, il profeta affronta un tema a lui caro che è quello della responsabilità personale.
La popolazione interpretava l’esilio come una conseguenza delle colpe degli antenati e qui come un castigo di Dio.
Ezechiele mette in evidenza la responsabilità personale: ognuno deve fare i conti con la propria malvagità e la malvagità collettiva non deve essere attribuita al passato: ognuno deve convertirsi dal proprio male.
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 21,28-32)
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
Il tema della responsabilità viene ripreso anche nel Vangelo di Matteo nella parabola del padre e dei due figli. La parabola non vuole evidenziare la necessità morale di fare qualcosa, di lavorare nella vigna, ma l’atteggiamento che si deve avere. La differenza tra il dire e il fare sta nell’atteggiamento interiore.
C’è una differenza sostanziale tra il primo figlio che dapprima rifiuta di andare e il secondo che offre la sua disponibilità e poi non va nella vigna: il pentimento.
Del primo figlio infatti Matteo evidenzia: “Egli (il primo figlio) rispose: Non ne ho voglia. Ma poi si pentì e vi andò” (v. 21,29)
Che cosa è qui il pentimento? Io qui direi che è il coraggio di ricredersi. A differenza del fratello, il primo figlio si ricrede, rivaluta la sua posizione e il suo dogmatismo, non mette il punto finale alle sue valutazioni, decisioni, opinioni; sa mettersi in discussione e rimane aperto. A differenza del fratello, il quale dice ma non fa, e rimane nella sua opinione e decisione ipocrita, si sente a posto, non ha bisogno di nessuno.
Gesù si rivolge ai capi religiosi e politici per affermare che loro si sono chiusi al messaggio di salvezza, a differenza di esattori delle imposte dell’impero romano e delle prostitute (che allora erano le due categorie tipiche di peccatori)
Ognuno di noi è chiamato e chiamata ad agire e assumersi le proprie responsabilità e sulla responsabilità personale sarà giudicato dal Signore.
Ma questa parabola ci invita a riflettere e domandarci quanto c’è in noi del primo figlio e quanto in noi del secondo, rispetto al nostro rapporto con Dio, alla vigna del Signore che è la comunità cristiana, nell’ambito familiare e di rapporti quotidiani.
Chiediamo al Signore come abbiamo detto nella preghiera iniziale di avere gli stessi sentimenti di Gesù “perché possiamo donare la nostra vita e camminare con i fratelli” nel costruire il suo regno già presente in mezzo a noi.